lunedì 29 ottobre 2012

The Matrix

Avete visto il film The Matrix (il primo)? Bene, guardatevelo. Fidatevi, poi ne parliamo. Mi raccomando solo una cosa: non guardatelo come fosse un film di fantascienza, guardatelo come se fosse un documentario, scene prese dalla realtà.

Da qua in poi quello che scrivo è uno spoiler, quindi andate avanti solo se non avete visto il film.







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The Matrix è un film denso di simbologie e dalle molteplici interpretazioni; quella di cui mi interessa parlare qui è relativa ai livelli di autenticità (o illuminazione, direbbe Osho) della nostra personalità.




All'inizio del film Mr.Anderson vive una vita che, scopriremo poi, è pura finzione: il suo cervello è infatti collegato ad una simulazione informatica (quella che lui identifica come realtà) mentre il suo corpo fisico è invece altrove, nella realtà "reale". Solo la pillola rossa di Morpheus lo rende 'illuminato' e toglie la sua mente dal mondo finto risvegliandola alla realtà.



Anche in noi accade qualcosa di simile: il nostro corpo vive nel reale, la nostra mente (ego) vive invece scollegata dalla realtà "nuda e cruda", vive in un mondo fatto di regole, giudizi, interpretazioni, tutte sovrastrutture inconsce che ci sono state passate principalmente da chi ci accudiva durante l'infanzia e, in minor parte, dall'ambiente e dalle esperienze.
Queste sovrastrutture formano l'ego (in Matrix: l'immagine residua di sé), ovvero quella 'personalità' che noi 'siamo' per interagire col mondo e per interpretarlo, e quindi comprenderlo (esattamente come fa Mr.Anderson nel film).
Rimanere a diretto contatto con la realtà senza una Matrice, senza un Mr.Anderson ad  interpretarla, è infatti una esperienza forte, spiazzante; senza un modello interpretativo della realtà la nostra mente non sa cosa fare: infatti il momento del risveglio, in Matrix, è un momento fortemente traumatico...Neo non è abituato a muoversi, nè sopratutto a vedere.

Neo: Mi fanno male gli occhi.
Morpheus: Perché non li hai mai usati.


E chi è l'agente Smith, se non quella nostra parte interna che ci minaccia continuamente, che ci fa credere che uscire dalla Matrice e diventare 'uomini liberi' sia pericoloso? Quanto è più comodo fare la scelta di Cypher, rinnegando la realtà e fuggendo negli schemi comodi e conosciuti di Matrix, invece di lottare, ogni giorno, per la libertà di essere uomini anziché schiavi!


Chi di noi può dire di vedere veramente il mondo? Siamo sicuri che il nostro ego non stia in realtà in mezzo, tra il nostro sé e la realtà, a costruire una Matrix?

E come si fa a svegliarsi? Basta guardare negli occhi la realtà o è prima necessario rileggere ed analizzare la nostra Matrice interna, per riuscire a fare a meno del nostro agente Smith e a guardare in faccia la realtà?



giovedì 25 ottobre 2012

mercoledì 24 ottobre 2012

La mancanza di libertà che rende felici

La libertà è una cosa fantastica, cui nessuno vorrebbe mai rinunciare.

Eppure esistono numerosi esperimenti di psicologia operativa che dimostrano come aumentare (troppo) le possibilità di scelta porti in realtà ad una diminuzione della felicità.

Perché poter scegliere una sola cosa tra una molteplicità di offerte ci rende paradossalmente più tristi?

1) scegliendone una il mio cervello in realtà sente che sta rinunciando a tutte le altre possibilità. Quindi una perdita multipla a fronte di un guadagno singolo.

2) una volta fatta una scelta, sicuramente mi chiederò se sia stata la scelta giusta. Magari l'altra bici non si sarebbe rotta alla prima salita, o quella TV al plasma mi avrebbe dato più soddisfazioni di quella ai LED, o invece di sposare mia moglie avrei fatto meglio a. (punto, finita la frase).

3) se le opzioni sono troppe, il nostro cervello semplicemente non ce la fa, entra in stress e si scalda come un microonde. Il nostro cervello è primitivo, fatto per scegliere tra cacciare o dormire, mica per valutare se 1 milione di megapixel sono confrontabili ad una frequenza di 100Mhz.

4) per scegliere ci vuole tempo

Se invece non ho più opzioni e prendo l'unica cosa che posso prendere:

1) non sto rinunciando a niente altro.

2) non posso avere rimpianti, dato che non ci sono alternative.

3) non faccio fatica a scegliere.

4) non perdo tempo

Ovviamente questo confronto (da tantissima scelta a zero scelta) è una forzatura, come al solito l'ottimo sta nel mezzo, ovvero nell'avere una gamma di scelta ragionevole, nel cercare di fare una scelta 'soddisfacente' anziché obbligarsi a cercale la scelta 'ottima', che forse non esiste neanche e che quasi sicuramente ci farà venire mal di testa.


martedì 23 ottobre 2012

Permaloso io? Va che mi offendo!


La definizione comunemente accettata di permaloso è “persona che si risente per cose futili o che sospetta cattiveria dietro ogni gesto o parola”. La mia invece – personalissima – è: “persona che si vuole male”. Vediamo perché.

Iniziamo col dire che il permaloso non è permaloso su tutto: ognuno ha le sue ‘aree minate’, chi la religione, chi l’aspetto fisico, chi ancora la capacità di muovere le orecchie una per volta. Il problema per chi incontra il permaloso è che, comunque,  queste aree sono praticamente impossibili da prevedere. E quindi stabiliamo subito una regola:
  • Chi interagisce con un permaloso prima o poi lo offende.

Sicuramente. Non c’è scampo. Prima o poi entrerete in una delle sue zone tabù e lui si offenderà.

Ma siamo sicuri che sia giusto affermare che io offendo un’altra persona?

Cerchiamo di capirci: se io insulto una persona e questa ci rimane male, questo ha un senso; se di nascosto faccio mangiare la porchetta ad un ebreo ortodosso, questo fa bene a mandarmi al diavolo (o dove comunque vanno gli ebrei peccatori): ma se a me non piacciono le sue orecchie e l’altro sviene dal dolore direi che c’è una sproporzione tra causa ed effetto. Veniamo quindi alla seconda regola:

  • Il permaloso ‘si’ offende. 


Quindi non è A che offende B, ma B che offende B. La prima dimostrazione di questa legge è che se dico la stessa cosa a due persone (per esempio: “la tua bici è vecchia”) è facilissimo che una si offende l’altra no. Perché? Perché è diverso il terreno su cui la mia osservazione è andata a piantarsi ed è quindi diversa l’emozione che nasce. 

Perché il vero problema non è la bici. Non sono le orecchie mobili. È il permaloso a pensare che sia quello il problema e ha anche un ottimo motivo per farlo: perché concentrandosi sulle orecchie quello che dice a sé stesso è “siccome le mie orecchie mobili sono fantastiche, io sono fantastico”. Così si tranquillizza e può permettersi di non pensare ad una verità molto più dolorosa e profonda, ancorata ad un vissuto infantile: ovvero la convinzione inconscia di non avere valore. Bassa autostima. Complesso di inferiorità. Scarsa fiducia in sé. Chiamatela come volete (sempre “colpa” del genitori, tranquilli). Regola tre:

  • La permalosità nasconde una bassa autostima


Per non entrare in contatto con questo terrore profondo il permaloso trasferisce ad una sua qualità esterna la convalida di sé. Ma arrivate voi, lui muove le orecchie, voi neanche ve ne accorgete e iniziate a parlare dell’ultimo film di De Niro. E parte il Krakatoa.

Perché?

Perché distruggendogli le orecchie voi gli state distruggendo la linea Maginot, il vallo di Adriano, la grande muraglia cinese, l’ultima diga difensiva al di là della quale è costretto ad entrare in contatto con il suo vero sé, che non si stima e non si vuole bene. Ed è un contatto che fa tanto, troppo male; e allora, pur di non provare questo dolore, il permaloso adotta la strategia più efficiente: sceglie di dare la colpa a voi. Siete voi ad essere cattivi ed insensibili, le sue orecchie sono meravigliose. Lui è meraviglioso.

Ma se sono permaloso, come ne esco?

Prima di tutto potreste evitare di fare danni, a voi stessi e agli altri. Trattenete, anche se a fatica, le espressioni più fisiche ed evidenti della permalosità. Non sputate in faccia al vostro collega che non gradisce la vostra cravatta. Evitate di insultare vostro cugino che non ha mangiato il vostro tiramisù. Già questo verrà apprezzato dagli altri e voi eviterete di sentirvi in colpa dopo.
E poi, ogni volta che vi sentite offesi da qualcuno, gioite! Cantate alleluia! È una grande occasione! Approfittate della vostra permalosità. Se avvertite quella particolare scintilla nella pancia, quel crescente brontolio che preannuncia l’esplosione…fermatevi. Notate e date un nome a quello che vi sta succedendo. Scusatevi con l’interlocutore, andate a farvi una passeggiata e chiedetevi: “quale mia parte debole e fragile è stata colpita da questa osservazione? Da dove viene questa parte debole?”. Poi andate a sdraiarvi sul lettino di un analista.

Se invece il vostro interlocutore (si, quello che vi ha offeso...ahi ahi...si dice 'quello da cui io mi son sentito offeso...) è disponibile, invece di fare da soli potreste parlare con lui di quello che sentite. Avrete delle sorprese incredibili (di solito positive).

lunedì 22 ottobre 2012

Nuvole al laccio

Cercare felicità all'esterno di noi stessi è come cercare di prendere al laccio una nuvola. La felicità non è una cosa: è uno stato della mente. Deve essere vissuta.
(Paramahansa Yogananda, Cercare felicità)

Gratitudine gratuita


Una sera di novembre, ore 20.30, sulla metro di ritorno da lavoro. Fuori, la pioggia noiosa e persistente di inizio inverno, che non è neanche un bel temporale con fulmini e acqua a ondate ma solo il sintomo evidente di una emozione negativa. Il meteo come esternalizzazione dei miei sentimenti. 

Il cielo ormai buio notte, la metro umida, intorno solo facce abbacchiate.
L'emozione: che schifo...miiiii che tristezza.
Poi mi è venuto in mente che mio nonno andava a Milano a lavorare in bici. E quindi si prendeva nebbia, pioggia, vento...tutto.
E sono stato improvvisamente grato per l'esistenza della metropolitana.
E' bastato questo per cambiare la mia emozione interna, il riconoscere un fatto che fino a quel momento non avevo visto.
Nella stessa identica situazione, mio nonno pedalava sotto la pioggia e io stavo a leggere un libro all'asciutto.

Ma allora perché ci concentriamo sulle cose negative?

E'un istinto evolutivo che ci porta a fare attenzione alle cose negative, per risolverle. Nella preistoria, se ti fermavi a contemplare felice il lato positivo di qualcosa (ad esempio l'aver abbattuto un cervo a sassate) potevi finire sbranato da un velociraptor.
Quindi: attenzione massima al problema da risolvere (devo portare velocemente a spalla il cervo fino alla grotta). E salvavi la pellaccia.

Ma diciamoci la verità, di velociraptor ultimamente ne ho visti pochi in giro. Possiamo smetterla quindi di guardare le cose negative? No, il punto non è questo.
Il punto è essere capaci di vedere anche il positivo - che c'è sempre - nelle situazioni che viviamo.

In poche parole, scegliere di essere felici. Perchè - fidatevi - la felicità non è una cosa che succede.
La felicità bisogna volerla, cercarla, trovarla.
Ogni maledetto giorno.

La felicità non viene dalle cose che ci succedono, ma dal modo in cui le viviamo.
Lo diceva anche Shakespeare: "There is nothing good or bad, but thinking makes it so".

Fate questo esperimento. Ogni sera, trovate tre cose per cui ringraziare.
Cose di qualsiasi tipo, dal sorriso di una persona al fatto di respirare, dal fatto che esista la Nutella alla sensazione che provate quando correte. Qualsiasi cosa. Fate attenzione ai particolari, alle emozioni, alle sensazioni  fisiche con cui reagisce il vostro corpo.
E' un allenamento, col tempo vedrete positivamente anche la convivenza con vostra suocera.

giovedì 18 ottobre 2012

Amore vs approvazione


I genitori dovrebbero dare un amore totalmente incondizionato ai figli.

Peccato che questo non sia possibile, fosse anche solo per il fatto che i figli “a volte” vanno educati e che quindi ci siano degli scontri in cui il figlio che vuole mangiare due kg di zucchero filato e sei frittelle, davanti alla disciplina genitoriale urla “non mi vuoi bene”… si rompe l’illusione dell’amore incondizionato e il bimbo corre un rischio, quello di pensare “se non obbedisco alla mamma, la mamma non mi vuole bene”, ovvero un sillogismo caratterizzato da una sproporzione mostruosa tra causa ed effetto; sproporzione che, se non chiarita subito e completamente, può creare danni nel piccolo sia a breve che a lungo termine.

Il bambino avrà infatti appreso che l’amore di papà e mamma dipende dal suo comportamento, da quanto è bravo, da quanto valore ha.

Chiariamo, questo ‘malinteso’ non è detto che nasca per ‘colpa’ dei genitori…oddio…a pensarci bene mica si può dire che è colpa di un bimbino piccino…sì, siamo sinceri: è colpa dei genitori. Cosa puoi fare, genitore? Sintetizziamo: non dire mai “sei un cattivo bambino”, ma “ti sei comportato male, ma la mamma ti vuole bene lo stesso”.

E questo è un caso ‘sano’. Se invece prendiamo una mamma anaffettiva, ansiosa e perfezionista, il figlio penserà non solo che per essere amato deve essere perfetto, ma che l’ansia di sua mamma è colpa sua: si beccherà in una volta sola una condanna al perfezionismo ed un senso di colpa grosso come una casa e da grande continuerà inconsciamente ad obbedire a questo modello, soffrendo come una bestia.

Come se ne esce?

Primo: bisogna capire che c’è una confusione linguistico/emotiva: si chiama amore quello che è invece approvazione. Ne scaturiscono alcune leggi e regole da imparare a menadito:
  •          l’approvazione e l’amore sono due cose completamente diverse
  •          cercare l’approvazione degli altri non ci dà il loro amore, quindi possiamo piantarla lì
  •          la disapprovazione degli altri non ci butta nell’abbandono
  •          una persona che ci ama può disapprovarci (e qui bisogna farci una riflessione…pratica)
  •          una persona che ci odia può approvarci (e qui c’è qualcosa di strano)

Sia ben chiaro, l’approvazione è importante anche da adulti: ci puoi fare carriera in politica, avere successo  come cantante di liscio, farti affidare la cassa del condominio e scappare in Brasile…ma non è amore. L’approvazione è qualcosa di utile, l’amore è vitale.

L'amore è sempre incondizionato. Tutto il resto è approvazione (Rachel Naomi Remen - qui a sx).


Secondo: dobbiamo renderci conto che stiamo proiettando sugli altri i nostri genitori (diciamo…quello che abbiamo immagazzinato di loro) e dobbiamo capire che questa è una grandissima vaccata. Gli altri sono persone come me, non sono i miei genitori (a meno che uno non sia stato adottato e incontri casualmente i genitori naturali che lo disapprovano).

Vediamo qualche caratteristica di due persone (tranquilli, nessuno sta totalmente nella colonna 'sano').


Sano
Malato
Chi è
Sé stesso
Una marea di maschere (ego) che si adattano a quello che l’esterno – secondo lui – si aspetta
Cosa cerca
Amore, empatia, compartecipazione, connessione
Approvazione
(pensando di cercare l’amore)
Cosa fa
Quello che desidera
Quello che deve
Cosa dà
Amore, empatia, compartecipazione, connessione
Una caterva di roba strana, anche divertente, ma poco amore
Cosa prova
Gioia
Ansia, depressione, solitudine, rabbia, distanziamento, fobia sociale…andate avanti voi
Cosa ottiene
Amore
Approvazione (a volte)
Cosa sente quando fallisce
Senso di responsabilità, impara dagli errori, si scusa, ripara al danno
Senso di colpa totale, crolla, si sente isolato e terrorizzato

Da che parte vuoi stare?